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DORFMAN NEWS



(Immagine per gentile concessione di www.pafringe.com)

Ariel Dorfman: Ho ritrovato l’ eroina che mi ha salvato la vita ma mi sono commosso per la donna che piangeva Pinochet

La città era Santiago del Cile, fine settembre 1973, e io scappavo a perdifiato per mettermi in salvo, alla vigilia di un esilio dal quale non ero sicuro di poter mai tornare. Fu in quel frangente che conobbi la donna che mi avrebbe salvato la vita: un colpo di stato aveva proprio allora rovesciato il governo di Salvador Allende. Non l’ avevo mai vista prima e non conoscevo il suo nome. Ma sapevo solo che se ci avessero preso, ci avrebbero ammazzati entrambi. Nell’ attraversare la città pullulante di soldati, ricordo un pensiero bizzarro: «Ehi, si potrebbe girare un film eccezionale», seguito da una voce più prudente dentro di me che sussurrava: «Sì, se ne esci vivo per poter raccontare la tua storia». Ne sono uscito vivo, ho raccontato la mia storia e oggi, quasi trentacinque anni dopo, è stato girato un film per narrare gli avvenimenti di quei giorni, che da allora mi hanno spinto a vagabondare senza una meta precisa. Sul finire del 2006, il regista canadese Peter Raymont (Shake hands with the Devil) mi ha seguito in Cile per rivivere gli entusiasmi della rivoluzione di Allende e le conseguenze sanguinose del golpe militare. È stato un tuffo nel passato, che mi ha dato la gioia di rintracciare finalmente quella donna anonima per ringraziarla. Ho pensato spesso a lei durante gli anni dell’ esilio, e quando nel 1990 si è ristabilita in Cile una fragile democrazia, sempre in bilico sul baratro, le ho reso omaggio con il personaggio di Paulina, la protagonista di La morte e la fanciulla, una donna che salva le vittime, pur sperando, a differenza di Paulina, che la mia salvatrice anonima fosse riuscita a evitare l’ arresto, la tortura o l’ esilio. Ebbene sì, era viva e vegeta, nel corpo e nello spirito, eppure né lei né il suo nome compaiono nel documentario. E’ vero, le strade di Santiago, oggi democratica, non sono più pattugliate dai soldati, ma l’ antico terrore permane nell’ aria, contamina ancora troppe vite umane. La mia «Paulina» non ha voluto essere filmata, ha detto, perché alcuni familiari, sostenitori della dittatura, non hanno mai avuto sentore del suo eroismo segreto, e preferisce che tutto rimanga così. Non era in simili circostanze che avevo pregustato la nostra festosa riunione. Un po’ ingenuamente, mi ero immaginato che, proprio come lei mi aveva salvato la vita, oggi la troupe cinematografica che mi seguiva in giro per il Cile l’ avrebbe riscattata da un ingiusto oblio. Ma se la telecamera le ha impedito di fare il suo ingresso nel nostro film, quella stessa telecamera ha reso possibile, in altre occasioni, tutta una serie di incontri e di impegni rimasti in sospeso, e continuamente rimandati. L’ ultima volta che l’ avevo visto vivo, Salvador Allende era al balcone del palazzo presidenziale, affacciato a salutare la folla festante di un milione di sostenitori. Oggi, il film mi ha consentito di sostare su quello stesso balcone, a fissare una piazza deserta, a riflettere sulla fine di Allende, una manciata di ceneri fredde, e su tutti quegli uomini e quelle donne che non erano più laggiù, a sfidare l’ ingiustizia. Ma non era quella l’ unica morte che mi aspettava in Cile. Una mattina a Santiago, proprio nel bel mezzo delle riprese, la radio ha trasmesso la notizia che l’ odiato nemico, il generale Augusto Pinochet, era stato colpito da ictus; sarebbe morto nel giro di una settimana. Siamo corsi in ospedale. L’ esilio è sconsolante, eppure ti risparmia almeno la sgradevole vicinanza dei servi e dei sicari del tiranno. Ecco lì, davanti ai cancelli della clinica, un gruppetto di donne in lacrime per il loro idolo moribondo, guidato da una signora piccola e rotondetta, la bocca carica di rossetto, che stringeva tra le mani il ritratto del suo eroe, mentre le lacrime le sgorgavano da dietro un paio di improbabili occhiali scuri. Eccola là, a dare uno spettacolo patetico agli occhi del mondo intero, a difendere un dittatore condannato dai tribunali cileni ed esteri come torturatore, assassino, bugiardo e ladro. Ecco che cos’ era diventato il Cile: un Paese dove questa donna, che aveva inneggiato alla morte della democrazia, che aveva festeggiato mentre mi davano la caccia e trucidavano i miei amici, quella stessa donna veniva filmata e adulata da trenta telecamere e cento microfoni, mentre la mia Paulina restava invisibile, nell’ ombra, a soffrire ancora per il terrore inflitto da quel generale, che continuava a essere circondato dall’ ammirazione e dall’ affetto dei suoi fedelissimi. Eppure, per un inspiegabile paradosso, mi sono sentito irrefrenabilmente commosso dal suo dolore. Per impulso, mi sono avvicinato alla donna e le ho detto che io avevo pianto la morte di Allende e la capivo, ora che toccava a lei piangere il suo leader. Ma volevo anche che si rendesse conto di quanta sofferenza ci fosse dalla nostra parte. Avrò fatto bene ad agire così? Nei miei romanzi e nelle mie opere teatrali, ho meditato profondamente sui muri che ci separano da quanti ci hanno fatto del male e ho suggerito che il pentimento è essenziale a ogni dialogo. Ma nella vita reale, non potevo aspettare quel pentimento in eterno. In questo interludio di compassione ho riversato il senso profondo e toccante del film. La narrativa aspira a raggiungere un momento come questo, ma solo il documentario riesce a catturarlo nella sua pienezza. Dedico questo momento alla mia Paulina. Con la speranza che anche lei, un giorno, possa emergere dall’ ombra. © Ariel Dorfman, 2008 (Traduzione di Rita Baldassarre)

Si ringrazia il Corriere della Sera vd. pagina 33 – 16 marzo 2008.